DEMOCRAZIA (ENCICLOPEDIA)
1. Democrazia degli antichi e democrazia dei moderni
La democrazia è la forma di governo in cui il potere è nelle mani non di uno solo o di pochi ma di molti. La parola compare per la prima volta in Grecia, nel V secolo a.C., dove i classici del pensiero politico la usano per designare un sistema di governo in cui il potere (kratos) è detenuto ed esercitato dal popolo (demos), cioè dal corpo dei cittadini di uno stato aventi piena capacità giuridica. Tale forma si differenzia dai sistemi in cui al contrario il governo è nelle mani dei nobili (aristocrazia) o dei ricchi (plutocrazia) o di una piccola minoranza (oligarchia) o della plebe (oclocrazia).
All’inizio, il termine non viene usato nell’accezione negativa che assumerà in seguito. Erodoto infatti esalta l’isonomia (uguali leggi per tutti), cioè il governo popolare1 rispetto a quello aristocratico e a quello monarchico e Tucidite, attraverso le parole di Pericle, elogia la democrazia degli Ateniesi rispetto alle costituzioni degli altri popoli2. Ma già a partire dal III secolo a.C. la democrazia finisce per designare una forma corrotta di governo. Nella Repubblica, Platone3 per esempio la annovera tra le forme di governo degenerate, dopo la timocrazia e l’oligarchia e prima solo della tirannide, mentre nella Politica Aristotele4 la definisce il governo dei poveri a proprio vantaggio, cioè il governo di una maggioranza che non esercita nell’interesse generale ma nell’interesse proprio, contrapposto al governo a vantaggio del monarca (tirannide) e a vantaggio dei ricchi (oligarchia).
La distinzione aristotelica in forme di governo buone (monarchia, aristocrazia e politeia) e cattive (tirannide, oligarchia e democrazia) è diventata peraltro comune, nei secoli che seguono la tradizione del pensiero occidentale, a tutta la trattatistica politica. Tant’è che ancora alla fine del Settecento Immanuel Kant afferma che la democrazia "è necessariamente un dispotismo" (Kant, 1996, p.12) e Alexander Hamilton, uno dei padri costituenti degli Stati Uniti, nel Federalista fa riferimento alla democrazia solo per condannarla, individuando piuttosto il regime politico ottimale nella "repubblica" (res publica, cosa di tutti)5. Per di più, l'uso elogiativo del termine democrazia da parte di Robespierre durante la Rivoluzione francese non fa altro che contribuire ad alimentare la cattiva reputazione della parola.
Tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX però la dottrina della democrazia diventa l’arma ideologica del movimento di emancipazione della borghesia europea, determinata ad affermare, contro la nobiltà e il clero, i propri interessi in nome della sua forza numerica e della sua funzione sociale all’interno dello Stato. Pertanto, l’idea di democrazia finisce per assumere una carica critica ed eversiva delle istituzioni esistenti tramandate dalla tradizione così come dei privilegi ingiustificati. Critica che in seguito è condivisa anche dalle classi meno privilegiate, come il proletariato e i contadini, nel momento in cui viene accelerato il loro processo di emancipazione.
La democrazia dei moderni, quella praticata dalla metà del XIX secolo, ha tuttavia caratteristiche diverse dalla democrazia degli antichi.
Sotto forma di contrapposizione tra libertà degli antichi e libertà dei moderni, l’antitesi tra i due tipi di democrazia è stata enunciata da Benjamin Constant nel 1818. Nel celebre discorso pronunciato all’Ateneo reale di Parigi, egli afferma che "il fine degli antichi era la distribuzione del potere politico fra tutti i cittadini di una medesima patria: ciò essi chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza nei godimenti privati: essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questi godimenti" (Constant, 1970, p.252), concludendo poi: "Noi non possiamo più godere della libertà degli antichi che era costituita dalla partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La nostra libertà deve essere invece costituita dal godimento pacifico dell’indipendenza privata" (Ibid.). Pertanto, se è la libertà del privato che il cittadino chiede al potere pubblico, la democrazia dei moderni non può che essere rappresentativa, dal momento che la partecipazione diretta alle decisioni collettive finirebbe per assoggettare l’individuo all’autorità di governo e a renderlo schiavo come privato.
In particolare, la libertà degli antichi si compendia nell'esercizio diretto e collettivo della sovranità, di una sovranità illimitata e onnicomprensiva che tutto assoggetta alla sua giurisdizione. Titolarità ed esercizio del potere coincidono6. In una collettività relativamente ristretta di persone, le quali hanno la possibilità di interagire faccia a faccia, la titolarità e l’esercizio del potere possono cioè restare congiunti. Il cittadino partecipante è il cittadino che esercita in proprio, per la quota che gli spetta, il potere di cui è titolare. In tal caso, la democrazia è davvero autogoverno. Nella polis l'esistenza individuale si risolve pertanto interamente nell'esistenza politica e alla libertà politica il cittadino sacrifica la propria indipendenza proprio perché è libero solamente in quanto membro del corpo politico.
Al contrario, in contesti caratterizzati "da grandi numeri" la democrazia disgiunge la titolarità dall'esercizio per poi ricollegarli a mezzo dei meccanismi rappresentativi di trasmissione del potere. Disgiunzione infatti non significa separazione: coloro a cui è affidato l’esercizio del potere (i rappresentanti) sono sottoposti al controllo di responsività e responsabilità nei confronti dei rappresentati mediante lo strumento della competizione elettorale7.
Sono stati i giuristi medievali a fissare la distinzione tra titolarità ed esercizio del potere nella elaborazione della dottrina della sovranità popolare che su quella distinzione si fonda. Nel Defensor pacis Marsilio da Padova, per esempio, afferma che il potere di fare le leggi, in cui si riassume il potere sovrano, spetta unicamente al popolo - o alla sua parte prevalente (valentior pars) - il quale concede ad altri (pars principans) nulla più che il potere, peraltro revocabile, di governare nell'ambito della legge, ossia il potere esecutivo8. Questa idea secondo cui dei due poteri fondamentali dello Stato, quello legislativo e quello esecutivo, il primo in quanto appartenente esclusivamente al popolo è il potere principale, mentre il secondo, che il popolo delega ad altri sotto forma di mandato revocabile, è il potere derivato, è diventata poi uno dei cardini della storia del pensiero politico dei secoli successivi. Dagli autori del Federalista fino alle teorie politiche di Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville e John Stuart Mill si è affermata l'idea che la sola forma di democrazia compatibile con la libertà dei moderni sia la democrazia rappresentativa9, in cui la partecipazione politica si manifesta non direttamente nella gestione della cosa pubblica bensì indirettamente nella designazione, attraverso elezioni periodiche competitive, di un corpo ristretto di rappresentanti. E quest'ultimo, svolgendo una delicata funzione di controllo politico, deve contemplare la presenza sia della maggioranza che dell'opposizione.
Nella dottrina del costituzionalismo moderno, la rappresentanza deve perciò configurarsi come istituzione collettiva che assume a criterio regolativo quella "funzione di espressione democratica" (Bagehot, 1997) la quale si realizza nel principio maggioritario, temperato dalle garanzie per le minoranze, come soluzione di regolazione dei conflitti tra governo (della maggioranza) e opposizione (della o delle minoranze).
Inoltre, dal momento che l'aspirazione fondamentale è la sicurezza nei godimenti privati, nella democrazia dei moderni la libertà degli uomini si riassume nelle garanzie che a questi godimenti vengono accordate dalle istituzioni pubbliche. Non c'è rinuncia alla libertà politica, ma questa deve combinarsi con altre libertà giacché l'esistenza dell'individuo non si risolve senza residuo nella partecipazione e nell'esercizio collettivo del potere.
Su questa evoluzione ha inciso naturalmente l’influenza del Cristianesimo, del Rinascimento, del giusnaturalismo e, non ultima, la riflessione filosofica e morale su cui si fonda il liberalismo. La libertà dei moderni è in tal senso strettamente connessa alla concezione dell'individuo-persona, a cui è riconosciuto un valore in sé indipendentemente dal suo essere parte della società e dello Stato.
2. Caratteri paradigmatici della democrazia moderna
Nel corso della loro evoluzione storica le istituzioni democratiche hanno assunto contenuti e significati eterogenei. Quanto ai sistemi politici contemporanei è possibile tuttavia individuare alcuni caratteri "invarianti" che possono essere assunti come altrettanti requisiti minimi di "democraticità". In particolare, si può ragionevolmente parlare di democrazia se esistono, per esempio, le garanzie istituzionali che seguono10: a) l'esistenza di regole consensualmente accettate e valide per tutti, che garantiscano e disciplinino le libertà personali e stabiliscano le modalità del conflitto politico; b) l'esistenza di elezioni libere e corrette attraverso le quali sia data a tutti i cittadini la possibilità di concorrere alla formazione della volontà collettiva mediante i propri rappresentanti; c) l'esistenza di una pluralità di gruppi politici organizzati che competano fra loro allo scopo di aggregare le domande sociali e trasformarle in decisioni collettive; d) l'esistenza di adeguati mezzi di tutela delle minoranze e delle loro aspirazioni a diventare maggioranza; e) l'esistenza di meccanismi di controllo e di informazione attraverso cui le strutture di potere siano chiamate a rispondere del modo in cui hanno gestito la delega dei cittadini11. In sintesi, "l’animus etico-politico della democrazia dei moderni è insieme ‘pluralistico’ e ‘competitivo’ e, dunque la coesione non va perseguita e ottenuta a scapito né della pluralità né della competizione" (Fisichella, 2003, p.13).
Il tratto peculiare della democrazia è innanzitutto la competitività. Essa assume cioè che la realtà sociale e politica è fatta di parti che possono essere in conflitto tra loro. Il conflitto è in ogni caso tra avversari e non tra nemici. E all'avversario non solo è garantita la possibilità di dissentire e di opporsi, ma anche di sostituire (o tentare di sostituire) pacificamente al potere il detentore del potere stesso. Ciò vuol dire innanzitutto che la democrazia postula una configurazione pluralistica della comunità e una concezione dell'interesse generale rispetto al quale gli interessi delle parti non sono eversivi e alternativi ma sono invece costitutivi nel senso che contribuiscono potenzialmente a costituire l'interesse generale. In tal senso, la società democratica è "politeista" nella misura in cui si predispone ad accogliere una pluralità di valori, di visioni del mondo, di proposte politiche, di associazioni e di partiti. E ciò che la caratterizza rispetto ad altre forme di dominio politico è la protezione del dissenso.
Ma vuol dire inoltre che in democrazia la competizione è conflitto "regolato" in quanto si svolge entro e nel rispetto delle regole del gioco che fissano norme di comportamento generali e astratte. La democrazia è dunque potere politico soggetto a controllo politico. Ha scritto Karl Popper che nella società "aperta", che costituisce il presupposto logico della democrazia, razionale non è chiedersi "chi deve comandare" quanto "come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno" (Popper, 1996, vol.I, p.156). Porsi infatti il problema di chi abbia legittimità a governare presuppone tacitamente una concezione del potere essenzialmente incontrollato perché sovrano, e che esige obbedienza perché depositario di "un punto di vista privilegiato sul mondo". Non bisogna dimenticare, invece, che ad agire sono sempre individui e che il fatto di godere di una legittimazione politica non fa venire meno la loro ignoranza e la loro fallibilità. Nessuno dunque può pretendere di essere l'unico conoscitore e portatore degli interessi di tutti. Da qui, l'esigenza di porre un limite al potere dei governanti se si vogliono evitare conseguenze disastrose per la libertà.
Anche in un regime democratico può annidarsi infatti la minaccia che la maggioranza, cui spetta governare nell'ottica di una concezione pluralistica dell'ordine politico, possa prevaricare. Resta ancora insuperata da questo punto di vista la lezione di Alexis de Tocqueville, il quale ne La democrazia in America, pubblicato tra il 1835 e il 1840, ci ricorda che la democrazia può fare da base alla libertà e la tirannide "a seconda che si abbia la libertà democratica o la tirannide democratica" (Tocqueville, 1968, p.10).
In particolare, il rischio della democrazia come forma di governo che garantisce indistintamente a tutti la partecipazione al circuito politico sta nel fatto che, nel livellamento prodotto dall'applicazione dell'ideale egualitario, si sfoci nel dispotismo e perciò nella negazione della libertà. Il principio di maggioranza infatti è un principio "omologatore" perché fa prevalere la forza del numero piuttosto che valorizzare le singole individualità.
L'idea di democrazia come governo del popolo (e della maggioranza) deve essere allora sostituita dall'idea di democrazia come giudizio da parte del popolo. Infatti, "il dominio della maggioranza si distingue da ogni altro tipo di dominio perché, secondo la sua più intima essenza, non soltanto presuppone, per definizione stessa, un'opposizione - la minoranza - ma perché riconosce politicamente tale opposizione e la protegge nei diritti fondamentali" (Kelsen, 1984, pp.141-142).
La regola delle democrazie è dunque che la maggioranza governa nel rispetto dei diritti della minoranza o delle minoranze (religiose, linguistiche, etniche, ecc.). Che hanno il compito di stimolare e controllare nonché la legittima aspettativa di diventare maggioranza nell'ambito di una pacifica competizione.
3. Democrazia elettronica
L'enorme diffusione e l'importanza strategica dei nuovi mezzi di informazione e comunicazione di massa come strumenti di mediazione e regolazione del consenso politico ("televoto", sondaggi di opinione che sfruttano la tecnologia informatica, conferenze elettroniche, ecc.) obbligano a riconsiderare la tradizionale distinzione tra democrazia degli antichi (diretta) e democrazia dei moderni (rappresentativa). Infatti, da un lato tali strumenti possono considerarsi un perfezionamento della democrazia rappresentativa perché contribuiscono a innalzare il livello dell'informazione politica, offrendo ai cittadini la possibilità di esprimersi in tempo reale sulle diverse questioni all'attenzione dell'agenda politica, al di là delle consultazioni saltuarie e rituali previste dal sistema rappresentativo classico12. Da questo punto di vista, Internet per esempio sembra offrire nuove possibilità di partecipazione politica a cittadini, gruppi politici e istituzioni che tendono a usarlo per ottenere informazione politica, per discutere di politica e per esprimere le proprie preferenze elettorali, per partecipare alla vita della comunità, e per impegnarsi in azioni politiche dirette e indirette. Dall'altro, la circostanza sempre più frequente di offrire la parola al popolo sembrerebbe favorire un modello di democrazia partecipativa intesa e praticata come democrazia diretta giacché, all'interno dell'agorà elettronica, tutti i cittadini potrebbero essere consultati permanentemente sui temi politici in discussione e esprimersi su di essi mediante pulsanti elettronici collegati a terminali telematici13.
Quale che sia l'interpretazione per cui si propende, non c'è dubbio che tale processo di evoluzione vede il venir meno delle funzioni legate alla dimensione politica dei processi decisionali, quali la negoziazione, la costruzione di equilibri, il raccordo, la mediazione tra interessi contrapposti. La base della democrazia cosiddetta "elettronica" (Hagen, 1997), più nota come e-democracy, infatti "è costituita da un complesso di rapporti 'binari' fra i cittadini e gli attori politici che sono in grado di 'bypassare' ogni possibile forma di intermediazione, qualsiasi struttura di rappresentanza che si frapponga tra individuo e potere politico" (De Mucci, 2009, p.272).
Ci si interroga dunque su quale sia il potenziale democratico delle nuove tecnologie della comunicazione, cioè se esse siano in grado di assicurare esiti autenticamente democratici ai processi decisionali. Non c'è dubbio che la migliore qualità e disponibilità di informazioni per governanti e governati, il maggior controllo sull’informazione da parte di coloro che la ricevono e, in generale, il potenziamento dei processi interattivi di rete incoraggino libertà democratiche fondamentali quali quella di pensiero, di coscienza, di parola, di movimento, di associazione. Non altrettanto scontato è che le nuove tecnologie possano realmente aumentare le conoscenze politiche dei cittadini ed emanciparli politicamente.
Studi recenti dimostrano che gli utenti, i quali peraltro rappresentano ancora un'esigua minoranza, quando non provengono dai ceti medio-alti e non hanno già significativi livelli di scolarizzazione, possono "imparare" dalla partecipazione in rete14. Ma ciò evidenzia la necessità che si diano condizioni effettive di opportunità a tutti i cittadini per la fruizione dell'hardware elettronico quale un adeguato addestramento alla sua utilizzazione e che si stabilisca un efficiente sistema di controllo sulla gestione delle informazioni e sulle procedure di accesso. Occorre riflettere infatti sul ruolo di grande influenza e di manipolazione che svolgono i "comunicatori", esperti a vario titolo, che gestiscono e controllano l'"agenda" stabilendo che cosa sottoporre al vaglio del pubblico.
Pertanto, liberandoli dalla mediazione delle istituzioni, le nuove tecnologie di fatto possono iscrivere i cittadini all'interno di dinamiche individualistiche che non necessariamente portano a esiti più democratici. Senza una chiara definizione degli attori che veicolano le informazioni e delle modalità con cui esse si sottopongono agli utenti, il rischio è che, per esempio, mano a mano che si estendono le dimensioni dei gruppi sociali, questo modello di relazioni politiche orizzontali sia vulnerabile alla demagogia e al populismo. Se non addirittura a forme celate di autoritarismo quando "le procedure di consultazione diffusa e immediata dei cittadini su schemi semplificati e preordinati di decisione elettorale servono piuttosto a garantire la libertà del potere dalle interferenze del dissenso politico che non la libertà degli individui a decidere autonomamente dei propri destini collettivi" (De Mucci, 1985, p.287).
La democrazia, per accreditarsi come "fatto", deve essere dunque innanzitutto un "valore" da presidiare e a cui educare attraverso lo sviluppo di una solida mentalità critica che renda consapevoli i cittadini dei presupposti e delle conseguenze del corretto uso delle regole democratiche. Perché sono le istituzioni democratiche che fondano la democrazia ma, come ci ricorda Popper, "le istituzioni sono come le fortezze: resistono se è buona la guarnigione" (Popper, 1996, vol.II, p.162).
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1L’eguaglianza di fronte alla legge si accompagna, infatti, all’isocrazia cioè al potere di decisione politica equamente distribuito fra tutti i membri di una comunità locale. Cfr. Erodoto (2008).
2Cfr. Tucidite (1985).
3Cfr. Platone (1967, pp.382-390).
4Cfr. Aristotele (1986, p.84 e ss.).
5Cfr. Hamilton … Jay … Madison (1998).
6Cfr. Sartori (2007).
7"Responsività" e "responsabilità" si riferiscono rispettivamente alla capacità del rappresentante di rispondere con prontezza, nel corso del suo mandato, alle domande dei rappresentati e di rispondere del proprio operato nel momento elettorale. A tal riguardo, cfr. la distinzione tra responsivness e accountability in Pitkin (1983).
8Cfr. Marsilio da Padova (2001).
9In generale, sulle teorie della rappresentanza politica, cfr. Fisichella (1996).
10A questo riguardo, cfr. Dahl (1981).
11A seconda che si ponga l'accento sulle regole e le procedure la cui osservanza deve essere garantita affinché il potere sia effettivamente distribuito tra tutti i cittadini oppure ai contenuti ispirati a certi ideali caratteristici della tradizione del pensiero democratico, primo tra tutti quello dell'eguaglianza, si è soliti distinguere tra democrazia "formale" e democrazia "sostanziale".
12Cfr., a questo riguardo, Dertouzos (1984), sull'impatto dell'uso del computer come strumento di comunicazione politica e, in particolare, come veicolo di consenso o dissenso politico, e Lievrouw (1994), sul passaggio da una condizione puramente ‘informativa’, basata sul consumo passivo di media e informazioni tradizionali, a una condizione ‘performativa’, basata sulla ricerca delle informazioni in ambiente interattivo.
13Cfr. Barber (1984, pp.15-21). In generale, sulla "democrazia elettronica", cfr. Pitteri (2007).
14Cfr., per esempio, Bimber (2003) o Lusoli (2007).
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Redattore: Simona FALLOCCO
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