ETICA DEGLI AFFARI (ENCICLOPEDIA)

1. Definizione
Per «etica degli affari» (traduzione dall’espressione inglese Business Ethics) si intende l’etica applicata alle attività economiche (Marcoux 2008). Sotto tale categoria rientrano contributi provenienti da numerose discipline, tra cui il diritto (civile, del lavoro e internazionale dell’economia), la teoria dell’impresa, l’economia politica e la filosofia morale. 
Dal punto di vista concettuale, prima di approfondire il dibattito relativo alla disciplina in oggetto, occorre chiarire il significato di etica applicata. Questa costituisce una parte o branca della più ampia disciplina della filosofia morale; in tal senso, è distinta dall’etica normativa, che indaga sulle norme di comportamento e dei principi cui esse si riferiscono, e dalla metaetica, che studia la natura dei giudizi e delle considerazioni morali (Maffettone 2001). 
L’etica applicata, come disciplina, nasce quale applicazione di principi e regole morali alla disciplina medica (etica medica), successivamente estesa a vari ambiti della tecnologia e della scienza1. Il suo scopo è di promuovere una riflessione etica strettamente agganciata alle questioni particolari, e dunque diversa da un approccio generale o fondamentale (come nel caso della teoria normativa e della metaetica). Comunque una rigida distinzione tra etica applicata e normativa sarebbe fuorviante (Maffettone 2001). Di conseguenza, l’etica applicata tende sempre più a considerare casi sufficientemente generali e, comunque, a far appello a regole e principi generali (Maffettone 2001) 2.
L’etica degli affari è, dunque, la forma di etica applicata che esamina il mondo del business. Essa consta di due componenti: l’una, eminentemente empirica, l’altra teorico-filosofica. (Donaldson e Dunfee 1994) La prima applica tecniche, spesso mutuate da finanza, marketing ed altri ambiti della teoria d’impresa, per studiare questioni relative al comportamento di imprese e di soggetti del mondo della finanza; la seconda intende offrire una prospettiva teorica generale avente ad oggetto il rapporto tra i principi liberali dell’economia e l’autonomia individuale. (Maffettone 2001) Numerosi studi hanno mostrato che vi sono molte interconnessioni tra l’approccio empirico e quello teorico-filosofico, molto spesso gli studi empirico - descrittivi costituiscono un’importante risorsa nel processo di giustificazione e produzione di giudizi normativi (Donaldson e Dunfee 1994). 
Dal punto di vista teorico, l’etica degli affari svolge una funzione di giustificazione imparziale di istituzioni e regole economiche, ed una funzione normativa, nel senso che identifica alcune norme sociali necessarie all’autoregolamentazione dell’economia (Sacconi 2004). Generalmente si distinguono tre livelli di applicazione della teoria morale applicata al mondo dell’economia: il livello macro, che concerne i rapporti tra stato, mercato e società in senso ampio, quello meso, che riguarda l’impresa come istituzione, e quello micro, che esamina la condotta degli individui coinvolti nelle organizzazioni economiche (Maffettone 2001; Sacconi 2004). 
I paragrafi seguenti hanno l’obiettivo di offrire un’introduzione generale all’evoluzione della disciplina dell’etica degli affari e alla definizione dei suoi ambiti.

2. Storia ed evoluzione dell’Etica degli Affari
Nonostante l’etica degli affari (Business Ethics) sia relativamente giovane come area di studio, il rapporto tra etica ed economia è antico. Secondo Amartya Sen3, nel suo Etica ed Economia (Laterza 2002), l’economia, come disciplina autonoma, avrebbe avuto origine dalla fusione di due sistemi di pensiero, uno dei quali sarebbe stata appunto la teoria etica. Questa tradizione può esser fatta risalire, secondo il professore indiano, all’opera aristotelica. Nell’Etica Nicomachea il filosofo greco collegava l’economia alla politica e all’etica, poiché "lo studio dell'economia, benché collegato in senso immediato al perseguimento della ricchezza, a un livello più profondo è legato ad altri studi, rivolti alla valutazione e all'avanzamento di obiettivi più fondamentali" (Sen 2000, p. 9). La tesi di Sen è ulteriormente supportata dal fatto che molti dei fondatori dell’economia politica classica siano stati anche illustri filosofi morali, come nel caso di Adam Smith.
L’etica degli affari, intesa come area di studio autonoma, è invece piuttosto recente avendo preso l’avvio negli Stati Uniti tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta (D'Orazio 2001; Marcoux 2008). Il primo contributo alla disciplina è stato offerto dagli studi di Raymond Baumhart tra il 1961 e il 19684. Solo a partire dagli anni Settanta, tuttavia, complice anche la grave crisi economica in cui versavano gli Stati Uniti, il dibattito si è arricchito ed ampliato. L’organizzazione della prima grande conferenza sull’Etica degli affari, dal titolo Ethics, Free Enterprises and Public Policy, si svolse nel novembre del 1974 in un’università del Kansas (D'Orazio 2001; Marcoux 2008). L’insegnamento della nuova materia è stato inserito in programmi universitari di economia (Business School) a partire dalla metà degli anni Ottanta. Nel 1987, proprio mentre lo scandalo dello spionaggio finanziario investiva Wall Street, alla Business School di Harvard veniva infatti costituito il primo programma di etica degli affari (Marcoux 2008). Oggi, questa materia è regolarmente insegnata negli Stati Uniti in numerose Business School ed in molti dipartimenti di filosofia. 
Intorno alla metà degli anni Ottanta il dibattito relativo all’Etica degli affari raggiunse l’Europa Occidentale. Conseguenza dell’interesse da parte degli accademici europei fu l’istituzione della prima cattedra di Etica degli affari nel 1984 in Olanda presso la School of Business dell’Università di Nijenrode a Breukelen (D’Orazio 2001). Per molti anni però, l’obiettivo principale degli studiosi europei fu quello di contestualizzare la nuova disciplina alla realtà economica ed imprenditoriale del vecchio continente. Nel 1994 fu infatti pubblicato un manuale dal titolo Business Ethics. A European Approach, ed una raccolta di casi studio tratti dall’esperienza europea (Harvey 1994; Harvey et al. 1994). Oggi, l’insegnamento dell’Etica degli Affari si è diffuso in molti paesi del vecchio continente, ed in particolare nel Regno Unito, nei Paesi Bassi, in Svizzera ed in Francia. In Italia, la nuova disciplina ha fatto più fatica ad affermarsi in ambito accademico. Ciononostante, con l’entrata in vigore del nuovo ordinamento universitario5, l’insegnamento dell’Etica e/o Filosofia dell’Impresa è stato inserito in molti corsi magistrali di scienze politiche ed economia.

3. Gli ambiti dell’Etica degli Affari
In termini generali è possibile distinguere tre livelli di applicazione dell’etica degli affari al mondo dell’economia. Se il livello micro concerne le regole per lo scambio equo tra individui, il meso concentra l’attenzione sull’impresa (corporation), mentre il livello macro comprende le regole culturali e istituzionali per il commercio di una società intera6
La distinzione dei tre livelli aiuta a comprendere che molte sono le questioni sollevate da accademici e studiosi dell’etica degli affari, dal comportamento e la responsabilità di manager, lavoratori e imprenditori alla moralità dell’impresa sino alla valutazione del governo e delle politiche pubbliche in relazione al mercato, sia a livello nazionale che internazionale. Gli ambiti di ricerca variano dunque dall’analisi dell’Impresa7, all’etica internazionale degli affari, sino al recente sviluppo dell’etica ambientale applicata al mondo degli affari8. Nei paragrafi che seguono si offrirà una breve analisi di alcuni degli ambiti dell’etica degli affari e delle principali questioni ad essa correlate.
3.1 L’analisi dell’impresa nell’etica degli affari
Gran parte della letteratura oggi esistente nell’ambito dell’etica degli affari è dedicata all’analisi dell’impresa. In tal senso, l’etica degli affari può essere definita come lo studio dei comportamenti di individui e imprese e delle pratiche che manager e imprese dovrebbero o non dovrebbero adottare (Werhane e Freeman 2005). 
L’attenzione verso l’impresa come soggetto dell’indagine etica fu evidente sin dai primi studi sull’etica degli affari. Durante la prima metà degli anni Ottanta, furono pubblicati due saggi che tuttora costituiscono il fondamento teorico dell’indagine relativa all’impresa: nel 1982 fu il testo di Tom Donaldson, Corporation and Morality, ad attirare l’attenzione degli studiosi, seguito poi da Persons, Right and Corporations di Patricia Werhane9. Entrambi i lavori ponevano le imprese al centro dell’indagine etica e, per primi, sollevavano alcuni problemi, tuttora oggetto di discussione accademica, relativi allo "status morale" dell’Impresa e degli attori coinvolti, siano essi manager, lavoratori, ecc. (Marcoux 2008; Werhane e Freeman 2005). 
La questione dello "status morale" dell’impresa e degli attori economici può essere articolata in tre grandi nuclei tematici. Il primo, che potremmo definire di natura ontologica, indaga sulla possibilità che un’impresa sia un agente morale (moral agent)10. Il secondo analizza la natura della responsabilità dell’impresa indipendentemente dalla sua natura di agente morale. Infine, il terzo nucleo teorico si concentra sulla responsabilità dei manager e degli altri lavoratori (Werhane e Freeman 2005).
Con riferimento al primo punto, il problema principale riguarda la possibilità di considerare l’impresa un agente morale al pari di un individuo o di un sistema sociale. La questione è generalmente posta in termini di analogia con il sistema giuridico. Alle imprese è riconosciuta una personalità giuridica, indipendente da quella individuale. In questa prospettiva, se l’impresa è dunque una ‘persona legale’11 con delle responsabilità al pari dell’individuo non vi sarebbero ragioni per non considerarla come un’entità morale o persona morale.12 Critici di questa posizione sottolineano che non sia realmente l’impresa ad "agire", ma gli individui, che a vario titolo fanno parte dell’impresa. In questa prospettiva, non sarebbe possibile imputare all’impresa azioni che sono poste in essere da individui13
Legato per certi versi al precedente, il secondo punto concerne direttamente la questione della responsabilità dell’impresa. Generalmente il problema è affrontato nei termini del contratto sociale (Maffettone 2001). A questo proposito, tra il 1994 e il 1995 Donaldson e Dunfee hanno proposto la teoria dei contratti sociali integrativi (Integrative Social Contract Theory, ISCT). Secondo i due accademici statunitensi, è possibile ritenere che ogni individuo razionale accetterebbe un ipotetico contratto sociale (macrosocial contract) che lascerebbe alle singole comunità economiche un significativo spazio di libera scelta morale in cui sarebbe possibile generare delle norme proprie di condotta economica attraverso contratti sociali più ristretti (microsocial contracts). In altre parole, secondo i due autori esisterebbero degli standard morali generali che governano i rapporti economici al livello macro, al cui rispetto sono vincolati le imprese e altri attori economici. 
Infine, con riferimento agli individui operanti all’interno dell’impresa è possibile distinguere almeno due importanti questioni: quella concernente la responsabilità dei manager, e quella incentrata sui lavoratori. Nel primo caso, il problema principale è quello di comprendere se la responsabilità dei manager sia limitata agli obblighi connessi al ruolo che essi rivestono all’interno dell’impresa. In questa prospettiva si discute sulla possibilità di estendere il contenuto degli "obblighi del ruolo" sino ad includere alcune norme generali di carattere morale (Werhane e Freeman 2005). Nel secondo caso, invece, si discute sulla natura e lo scopo dei diritti dei lavoratori.
3.2 Etica internazionale degli affari 
L’internazionalizzazione delle imprese e la globalizzazione dei mercati finanziari dell’ultimo ventennio hanno avuto un forte impatto sull’etica degli affari, al punto che da alcuni anni è stato sviluppato un nuovo ambito di indagine, l’etica internazionale degli affari (International Business Ethics). 
La principale questione morale sollevata dalla globalizzazione dei mercati è certamente quella legata al relativismo culturale: dal momento che le pratiche etiche differiscono profondamente nei vari paesi, è possibile concepire uno standard morale internazionale a cui tutti gli attori di mercato debbano conformarsi in qualunque contesto essi agiscano? A questo proposito, Donaldson fu tra i primi ad avanzare una proposta, e nel 1989 suggerì una soluzione che avrebbe garantito il rispetto dei diritti umani fondamentali pur preservando la diversità culturale, attraverso una lista minima di standard morali che avrebbe vincolato i soggetti economici internazionali al rispetto di libertà d’associazione, di parola e di movimento, diritto di proprietà, diritto ad un equo giudizio, non discriminazione, sicurezza fisica e psicologica, diritto alla sussistenza ed all’educazione minima (Donaldson 1989). La critica ai sostenitori di uno standard minimo morale di riferimento per i rapporti economici a livello internazionale viene, appunto, dai sostenitori della visione relativista secondo cui le differenze culturali creano differenze morali irrisolvibili tra le società. In questa prospettiva, non esistono standard morali generali in grado di risolvere dispute generate da valori morali particolari. 
Tuttavia, la maggioranza degli studiosi concorda sull’esistenza di un set minimo di standard morali universalmente accettato, in genere riconosciuto nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. Recentemente, il Global Compact, sostenuto dalle Nazioni Unite, ha costituito un ulteriore passo in avanti in tal senso, offrendo un codice di condotta appropriato agli ambiti del mercato internazionale. Tra i principi propugnati dal Global Compact vi sono il divieto di rendersi complici in casi di violazione di diritti umani, il sostegno alla libertà di associazione e contrattazione, il divieto di sfruttamento di lavoro minorile e l’eliminazione di ogni forma di discriminazione sul lavoro (Marcoux 2008). 
3.3 Etica ambientale applicata al mondo degli affari
Negli ultimi anni la questione ambientale è stata sempre più spesso associata allo sviluppo economico. Molti sono gli studi che hanno affrontato questa relazione cercando di comprendere quale sia l’impatto del consumismo e dello sviluppo economico sull’ecosistema. 
Una prima questione sviluppata dagli studiosi dell’etica ambientale applicata agli affari concerne l’impatto del mercato e delle grandi multinazionali sui rapporti tra Nord e Sud del mondo. Questo tema ha dato origine ad una consistente letteratura che pone in primo piano due posizioni contrastanti. Secondo alcuni studiosi (Myers e Simon 1994), infatti, la crescita economica ed il consumismo delle economie industrializzate sono insostenibili da un punto di vista ambientale e distruttivi sul piano ecologico e, dunque, non attuabili nelle società meno sviluppate. Al contrario, un secondo gruppo enfatizza l’importanza delle nuove tecnologie e biotecnologie impiegate dalle grandi imprese multinazionali per uno sviluppo più responsabile e attento all’ambiente. In tal senso queste imprese si rivelano importanti attori di stimolo alla crescita economica dei paesi meno sviluppati (Werhane e Freeman 2005). 
Tuttavia, la questione di maggiore rilievo in quest’area tematica riguarda direttamente il rapporto tra sviluppo economico e natura. Molti studi si concentrano sulle ragioni per cui la crescita economica dovrebbe essere vincolata rispetto della natura. L’argomento più utilizzato in tal senso è che dal momento che non ci sono reali certezze circa il futuro del pianeta, è opportuno non mettere a repentaglio le opportunità di vita delle future generazioni (Werhane e Freeman 1999). 
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1A questo proposito si veda la definizione di etica applicata adottata nel Companion to Applied Ethics, secondo gli autori l’Etica Applicata si riferisce a qualsiasi uso del metodo filosofico di trattare questioni, pratiche e politiche di natura morale con riferimento a professioni, tecnologia, governo, eccetera. (Beauchamp 2005) («A weaker and more defensible view is that “applied ethics” refers to any use of philosophical methods to treat moral problems, practices and policies in the professions, technology, government, and the like. » Beauchamp 2005, p.3).
2Su questo punto anche D’Orazio (2001).
3Premio nobel per l’economia nel 1998.
4Si fa qui riferimento ai seguenti lavori: Baumhart Raymond, 1961, “How Ethical are Businessmen’s”, Harvard Business Review, 39(4):6-9; Baumhart Raymond, 1963, “Explanatory Study of Businessmen’s view on Ethics and Business”, DBA Dissertation, Harvard Business School; Baumhart Raymond, 1968, “An Honest Profit: What Businessmen say about Ethics and Business”, New York: Holt, Rinehart and Winston. 
5Avviato in Italia con decreto ministeriale n. 509/1999.
6Tale distinzione, poi largamente utilizzata in letteratura, è apparsa per la prima volta nel Companion to Ethics curato da Peter Singer, in Solomon, R.1991. “Business Ethics”, Singer P. [Ed.] A Companion to Ethics. Malden MA: Blackwell.
7A questo proposito si veda anche Responsabilità sociale d’Impresa.
8Su questo punto si veda anche Sostenibilità.
9Donaldson (1982) e Werhane (1985).
10Il problema nella letteratura è definito in termini di moral agency che in italiano potrebbe essere espresso in termini di capacità morale.
11Su questo punto Marcoux sottolinea che nel sistema giuridico Angloamericano la personalità giuridica delle imprese è spesso descritta come una finzione giuridica (legal fiction), per questa ragione anche in ambito giuridico si perderebbe la natura ontologica di persona giuridica.
12A questo proposito si veda French (1979) citato in Marcoux (2008) e Werhane (2005).
13Velasquez (1983) citato in Marcoux (2008) e Werhane (2005).


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Redattore: Valentina GENTILE
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