PARABANCARIO

Locuzione usata per individuare un insieme di attività genericamente di natura collaterale o strumentale a quelle bancarie, le quali non presentano tuttavia tratti sostanziali comuni tali da consentire di darne una nozione unitaria e precisa. Vi rientrano, fra gli altri, il leasing, il factoring, il venture capital, il merchant banking (v. merchant bank), il credito al consumo, l’amministrazione e gestione di patrimoni mobiliari e di patrimoni in generale, la gestione di fondi comuni d’investimento (v. fondo comune d’investimento; SGR), le carte di credito (v. carta di credito) e i servizi di consulenza privata alla clientela. Tali attività possono essere svolte dalle aziende bancarie sia direttamente (come nel caso della consulenza finanziaria e della gestione individuale di patrimoni), sia mediante una rete di società controllate. La nascita elo sviluppo, in gran parte spontaneo, delle attività parabancarie, specie nei casi di diffusione al di fuori del comparto bancario, hanno vaste implicazioni in tema di vigilanza; si pone, infatti, il problema di sottoporle ad adeguati controlli in analogia con quelli posti sulle attività tipicamente bancarie, quantunque diversificati in ragione della loro natura, assecondando una tendenza sempre più consolidata nella maggioranza delle economie industrializzate. Nei primi anni Ottanta, quando è sorto il problema ella necessità di controllo degli intermediari non bancari, le sole attività regolamentate erano quelle degli intermediari bancari e, in modo parziale, quelle delle società fiduciarie. La situazione attuale si presenta modificata, sia per l’affinamento dei principi e dei criteri che presiedono la regolamentazione, sia per gli strumenti utilizzati, sia, in termini più pragmatici, per la graduale estensione di taluni controlli ad aree sempre più ampie dell’attività di intermediazione finanziaria non bancaria. Secondo lo schema di classificazione della Banca d’Italia ci sono tre categorie di intermediari operanti in tali aree: a) intermediari che erogano prestiti, solitamente di tipo specializzato, impiegando a tal fine una raccolta di tipo azionario ovvero fondi ottenuti a prestito dalle banche (credito al consumo, leasing, factoring); b) intermediari che gestiscono risparmi loro affidati dai clienti scegliendo le forme di investimento in forza di un mandato fiduciario o di un rapporto di semplice consulenza (gestioni fiduciarie, fondi comuni d’investimento); c) intermediari operanti sui mercati mobiliari con un proprio portafoglio di titoli e che, assicurando il collocamento di emissioni (underwriters) ovvero offrendosi di acquistare o vendere titoli sul mercato secondario a un prezzo annunciato (dealers, market makers), rendono non necessaria la coincidenza temporale fra domanda e offerta da parte degli operatori “finali”, oppure, mantenendo partecipazioni in portafoglio per periodi più lunghi, agevolano, diluendolo nel tempo, l’accesso di imprese al mercato dei capitali (venture capital, merchant banking). La seconda categoria di intermediari ha trovato regolamentazione con la l. 23.3.1983 n. 77, la quale, introducendo nel nostro ordinamento i fondi comuni d’investimento mobiliare, ha contemporaneamente dettato norme per la regolamentazione dei valori mobiliari atipici oltre che per il controllo delle società ed enti di gestione fiduciaria. La terza categoria di intermediari è stata regolamentata, per talune modalità ed ambiti operativi, dalla recente l. 2.1.1991 n. 1 sulla “Disciplina dell’attività di intermediazione mobiliare e disposizioni sull’organizzazione dei mercati mobiliari” (v. SIM); rimane tuttavia esente da disciplina la gestione di attività di merchant banking e venture capital di matrice non bancaria, mentre quelle bancarie sono disciplinate, secondo uno schema “indiretto”, dalla delibera CICR del 6.2.1987 e dalla lettera della Banca d’Italia del 9.3.1987, entrambe aventi ad oggetto la partecipazione di enti creditizi al capitale di società di intermediazione finanziaria. Anche la prima categoria non è soggetta ad alcuna normativa specifica. Tuttavia, le attività svolte da soggetti di estrazione bancaria sono sottoposte a limitazioni attraverso una disciplina mediata: ciò si verifica, attualmente, sia per il leasing, attraverso i vincoli posti alle operazioni “d’impianti ed investimenti fissi” ed immobiliari delle banche, parametrate alla consistenza dei mezzi patrimoniali, sia per il credito al consumo, sottoposto a vincoli di durata massima e a un principio di frazionamento del rischio. La normativa sui gruppi bancari, di recente emanazione (l. 30.7.1990 n. 18 e istruzioni applicative), affronta il problema della vigilanza prudenziale sulla fattispecie del gruppo bancario, ed è finalizzata a evitare che le vicende delle unità non bancarie del gruppo si possano ripercuotere negativamente sulla stabilità complessiva della banca; si tratta comunque di una vigilanza sul gruppo nel suo insieme e non sulle singole unità che lo compongono. La vigilanza su base consolidata e la vigilanza regolamentare, infatti, individuano come destinataria diretta degli obblighi e dei divieti la capogruppo, ragion per cui questa rappresenta il punto di riferimento delle autorità creditizie e, solo in via eccezionale, sono previsti rapporti diretti tra le singole unità del gruppo e le autorità di vigilanza. Le regole gestionali riguardano l’adeguatezza patrimoniale, le partecipazioni detenibili e, in genere, il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni. In materia, devono segnalarsi le fondamentali novità introdotte con il TUF (d.lg 24.2.1998 n. 58) per le quali si rinvia alla voce specifica.

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