LA NATURA GIURIDICA DELLE SOCIETA' A PARTECIPAZIONE PUBBLICA
Tipo voce : Voci enciclopediche
Categorie: Regolamentazione e vigilanza
Abstract
L’elaborato in oggetto approfondisce il fenomeno delle società a partecipazione pubblica con un particolare focus sulla crisi di impresa e sulla responsabilità degli amministratori. L’obiettivo di questa tesi è infatti quello di dimostrare come le società pubbliche, alla luce dei recenti mutamenti legislativi e giurisprudenziali, non siano più dei soggetti giuridici sui generis, ma possano essere ormai considerate a pieno titolo una species del più ampio genus costituito dalle società di diritto privato.
1. Introduzione
Il fenomeno delle società a partecipazione pubblica nasce in Italia tra il XIX e il XX secolo, con l’affermarsi dello Stato Imprenditore. In quel periodo, l’uso dell’impresa pubblica come strumento d’intervento nell’economia aveva conosciuto una notevole fortuna, basti pensare alla legge Giolitti del 1903, la c.d. “legge sulle municipalizzazioni”, attraverso la quale vennero disciplinate in maniera organica le forme di gestione dei servizi pubblici locali. Nel corso degli anni, questo modello organizzativo è infatti andato incontro ad una notevole proliferazione, tanto da spingere il legislatore ad intervenire a più riprese. Nonostante ciò, la natura delle società in mano pubblica rimaneva sempre controversa, tanto da essere a lungo considerate dei soggetti ibridi, a metà strada tra il diritto pubblico e il diritto privato. Proprio la difficoltà di inquadrare giuridicamente questo fenomeno aveva portato la dottrina e la giurisprudenza ad interrogarsi, in assenza di specifiche disposizioni, sulla possibilità di assoggettare al fallimento e alle altre procedure concorsuali le società pubbliche. Era quindi nata, sulla base di queste premesse, una lunga “querelle” tra i fautori della tesi privatistica, i quali ne ammettevano la fallibilità, e i sostenitori della tesi pubblicistica, i quali invece escludevano tale possibilità sulla base di due criteri: quello tipologico e quello funzionale. Secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza infatti, le società pubbliche dovevano essere assimilate agli enti pubblici e, in quanto tali, esonerate dal fallimento (e dalle altre procedure concorsuali) in forza dell’articolo 1 della Legge fallimentare, ai sensi del quale “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”. Alla base di questo orientamento vi era l’idea di una presunta incompatibilità tra le finalità proprie dell’attività degli enti pubblici e gli effetti tipici derivanti dalla procedura fallimentare.
Non vi era, però, univocità di vedute circa il criterio da utilizzare per escludere la fallibilità: secondo alcuni si doveva fare leva sulla qualificazione della società come “ente pubblico”, secondo altri bisognava invece accertare che la società in questione fosse “necessaria”. Per contro, una parte della dottrina e della giurisprudenza, riconoscendo alle società a partecipazione pubblica natura di soggetto privato, continuavano ad affermarne la fallibilità. Secondo i sostenitori di questa tesi, posto che l’ordinamento europeo sancisce il c.d. principio di neutralità nei confronti del regime di proprietà delle imprese, non possono non considerarsi eventuali effetti pregiudizievoli che i creditori potrebbero subire a causa di tale esenzione.
Questo dibattito si era reso particolarmente acceso con riferimento alle società in house, soprattutto alla luce del fatto che tali entità sono spesso incaricate dello svolgimento di servizi pubblici essenziali per la collettività. Ci si chiedeva infatti come si poteva coordinare le caratteristiche proprie dell’in-house con le conseguenze tipiche derivanti dalla sottoposizione al fallimento, quale era ad esempio l’ingerenza dell’autorità giudiziaria in ambiti che erano, invece, tradizionalmente riservati alla sola amministrazione. A complicare il quadro si era poi aggiunto, nel corso degli anni, un utilizzo distorto della forma societaria: l’uso del modello privatistico si era infatti rivelato elusivo della concorrenza e, in particolare, delle norme pubblicistiche in tema di stipulazione dei contratti all’esito delle procedure di gare ad evidenza pubblica. Ad allarmare era soprattutto la particolare “immunità” di cui godevano gli amministratori delle società partecipate: la loro nomina aveva infatti assunto “carattere clientelare” e raramente venivano revocati dall’incarico. Gli enti locali che avevano provveduto alla nomina difficilmente si rendevano disponibili a promuovere nei loro confronti le dovute azioni di responsabilità, con la conseguenza che, in caso di mala gestio, non veniva garantita una tutela adeguata al pubblico erario. Conseguentemente la Corte dei Conti, nel tentativo di arginare queste tendenze e di garantire allo stesso tempo una adeguata tutela delle finanze pubbliche, ha iniziato ad estendere la propria giurisdizione anche alle ipotesi di responsabilità degli amministratori di società partecipate. Il tema presenta diversi profili di criticità ed è stato oggetto, nel corso degli anni, di una notevole produzione dottrinale e giurisprudenziale, soprattutto da parte della Suprema Corte di Cassazione, la quale, in virtù del suo ruolo di giudice regolatore della giurisdizione, ha avuto modo di pronunciarsi più volte sulla questione. Delle diverse questioni che si pongono, quelle sicuramente più rilevanti riguardano i)la possibilità di configurare la giurisdizione contabile nei confronti degli amministratori delle società partecipate in presenza di un danno arrecato al patrimonio sociale e ii) l’eventuale proponibilità, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio. Analogamente a quanto accaduto in tema d’insolvenza delle società partecipate, anche in questo caso si erano andati registrando in giurisprudenza due orientamenti, uno pan-pubblicistico e uno pan-privatistico: era quindi evidente come il problema alla base fosse ancora una volta quello della natura giuridica delle società pubbliche. Pertanto, dopo una breve disamina in merito ai modelli di società pubbliche tipizzabili in seguito alla entrata in vigore del d.lgs. 175/2016, si procederà ad analizzare le due questioni, le quali, come si è visto, sono indissolubilmente legate da un unico “fil rouge”: quello della natura giuridica.
2. I modelli di società pubbliche
Il d.lgs. 175/2016 (c.d. decreto Madia) definisce le società a partecipazione pubblica, all’art. 2 comma 1 lett. n), come “le società a controllo pubblico, nonché le altre società partecipate direttamente da amministrazioni pubbliche o da società a controllo pubblico”. All’interno di questa macro-definizione si distinguono 5 diversi modelli: le società a controllo pubblico, le società meramente partecipate, le società in house, le società miste e le società (pubbliche) quotate. Le società a controllo pubblico sono quelle società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo di cui all’art. 2359 c.c, mentre le società meramente partecipate sono quelle società in cui l’amministrazione ha la titolarità di rapporti comportanti la qualità di socio in società o la titolarità di strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi (partecipazione che può essere anche indiretta). La distinzione tra questi due modelli è molto importante in quanto il testo unico dedica specifiche disposizioni, quali ad esempio gli art. 6 e 11, alle sole società a controllo pubblico. La ratio di questa deroga è chiara: trattandosi di società controllate dall’amministrazione potranno pertanto beneficiare di un regime di deroga alle regole previste dal diritto societario, deroga che invece risulterebbe ingiustificata in presenza di una “mera partecipazione”. All’interno della definizione di società quotate rientrano invece sia le società a partecipazione pubblica che emettono azioni quotate in mercati regolamentati, sia le società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati. Peculiarità di questo modello è che le disposizioni del testo unico si applicheranno ad esse solo ove espressamente richiamate. I modelli certamente più discussi e controversi di società pubbliche sono però gli ultimi due: le società c.d. in house e le società miste (o a partecipazione pubblico-privata). La “sentenza Teckal”, ha affermato la legittimità del comportamento, da parte della pubblica amministrazione, di procedere all’acquisto di beni o servizi attraverso un affidamento diretto ad un propria articolazione organizzativa, benché dotata di autonoma soggettività giuridica (ad esempio nel caso in cui sia costituita in forma di società) e a condizione che l’amministrazione eserciti su di essa un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società in questione svolga a favore dell’amministrazione la maggior parte della sua attività . Si tratta quindi di un istituto di matrice giurisprudenziale, nato per limitare i casi in cui è legittimo ricorrere ad un affidamento diretto, in deroga alle norme dettate dai trattati e dalle direttive a tutela della “concorrenza per il mercato” e recepite in Italia con il codice dei contratti pubblici (d.lgs.50/2016). Le società in house sono definite, all’art. 2 comma 1 lett. o), come “le società sulle quali un'amministrazione esercita il controllo analogo o più amministrazioni esercitano il controllo analogo congiunto, nelle quali la partecipazione di capitali privati avviene nelle forme di cui all'articolo 16, comma 1, e che soddisfano il requisito dell'attività prevalente di cui all'articolo 16, comma 3”. Affinché possa parlarsi di società in house è quindi necessario che siano soddisfatti tre requisiti: i) la sottoposizione al controllo analogo; ii) lo svolgimento dell’attività prevalentemente a favore dell’ente pubblico o degli enti pubblici soci (si parla di almeno l’80% del fatturato); iii) l’assenza di partecipazione di capitali privati ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e purché tale partecipazione avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l'esercizio di un'influenza determinante sulla società controllata. Di questi tre requisiti, quello sicuramente più problematico è il “controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”, consistente, secondo la definizione data dal testo unico, nell’influenza determinante esercitata sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata. Sul significato di controllo analogo si è scritto tanto, sia in dottrina che in giurisprudenza, e si è spesso giunti alla conclusione che quello indicato al comma 1 dell’articolo 16 sia in realtà un significato metaforico, da intendersi nel senso che l’amministrazione continua ad esercitare un controllo sull’attività commissionata nonostante la terzietà della società partecipata. Questo modello, oltre ad essere regolato dal Decreto Madia è altresì disciplinato dall’art. 5 del codice dei contratti pubblici. Tuttavia, sebbene entrambi i decreti si occupino di disciplinare lo stesso fenomeno, diversa è però la prospettiva da cui viene affrontato. Mentre infatti l’obiettivo del codice degli appalti pubblici è quello di regolamentare l’azione della pubblica amministrazione e l’affidamento diretto è quindi concepito come una modalità organizzativa dell’attività della PA, il decreto Madia si occupa dell’affidamento in house in una prospettiva soggettivistica. La natura giuridica delle società in house appare essere parecchio controversa tanto in giurisprudenza quanto in dottrina posto che, da un lato, la stessa è configurata alla stregua di una unità operativa interna all’amministrazione aggiudicatrice, alla quale resterebbe coerentemente avvinta da una relazione essenzialmente interorganica, mentre dall’altro è a tutti gli effetti un soggetto privato a causa della sua veste societaria. Pertanto, a causa di questa sua natura ibrida, una parte della dottrina ha addirittura dubitato della compatibilità di questo modello con le norme di diritto societario e con i principi del nostro ordinamento giuridico. Le società miste sono disciplinate invece dall’art. 17 del d.lgs. 175/2016 e sono tradizionalmente considerate come una delle più importanti forme di collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori nella gestione di un servizio pubblico.
Osservando questo fenomeno da un punto di vista dell’amministrazione si potrebbe giustamente affermare che le società miste rappresentano una modalità di gestione di servizi pubblici alternativa sia rispetto all’esternalizzazione mediante affidamento a soggetti terzi selezionati con gara, sia rispetto alla gestione in proprio da parte dell’ente. Si tratta di un argomento che ha suscitato un ampio dibattito, tanto in dottrina quanto nella giurisprudenza, e che risulta essere stato recentemente affrontato dal legislatore sotto un duplice punto di vista: si parla infatti di società miste sia nel d.lgs. 50/2016, con riferimento agli aspetti pro-concorrenziali, sia nel d.lgs. 175/2016 con riguardo alla disciplina societaria. La disciplina dettata dal codice dei contratti pubblici in materia di società miste si spiega anche alla luce del fatto che quest’ultime costituiscono una forma di partenariato pubblico-privato c.d. “istituzionale”, al quale peraltro è dedicato il titolo I della parte IV del d.lgs., 50/2016. Per partenariato pubblico-privato (PPP) si intende il contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto con il quale una o più stazioni appaltanti conferiscono a uno o più operatori economici per un periodo determinato in funzione della durata dell'ammortamento dell'investimento o delle modalità di finanziamento fissate, un complesso di attività consistenti nella realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa di un'opera in cambio della sua disponibilità, o del suo sfruttamento economico, o della fornitura di un servizio connessa all'utilizzo dell'opera stessa, con assunzione di rischio secondo modalità individuate nel contratto, da parte dell'operatore. Da questa definizione emerge quindi come gli elementi fondanti questo tipo di contratto siano sostanzialmente due: la durata dello stesso e l’assunzione del rischio da parte del privato. Quest’ultimo può riguardare a sua volta sia l’assunzione del rischio di costruzione (connesso agli eventi legati alla fase progettuale), sia del rischio di domanda o di disponibilità (connesso invece alla fase operativa). È importante sottolineare che soltanto al ricorrere di queste condizioni un contratto potrà essere classificato come PPP e non come appalto e di conseguenza potrà essere posto off balance ovvero i costi legati alle operazioni non potranno essere messi a carico del bilancio dello Stato. Tornando alle società miste, esse si caratterizzano per il fatto che i) la partecipazione del privato non può essere inferiore al 30%; ii) la scelta del socio privato deve avvenire attraverso l’espletamento della c.d. “gara a doppio oggetto”. Coerentemente infatti con quanto disciplinato dall’art. 5 comma 9 del d.lgs. 50/2016, il testo unico sulle società partecipate dispone all’art. 17 comma 1 che la scelta del socio privato debba avvenire con procedure di evidenza pubblica e che la medesima gara ha a oggetto, al contempo, la sottoscrizione o l'acquisto della partecipazione societaria da parte del socio privato e l'affidamento del contratto di appalto o di concessione oggetto esclusivo dell'attività della società mista. Infine, dai modelli di società pubbliche così delineati devono essere tenuti distinti i tipi di società in cui è ammessa la partecipazione pubblica, i quali, ai sensi dell’art. 3 comma 1 del decreto, non possono che essere “società, anche consortili, costituite in forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata, anche in forma cooperativa”.
3. Crisi d’impresa e responsabilità degli amministratori nelle società partecipate
La questione circa la possibilità di assoggettare le società pubbliche alle procedure concorsuali rappresenta un problema complesso, posto che diverse sono le conseguenze a seconda della soluzione accolta. A tal proposito si rende infatti necessario, da un lato, conciliare la finalità di lucro, tipica delle società commerciali, con gli interessi pubblici che la Pubblica Amministrazione deve di volta in volta perseguire, e, dall’altro, preservare il regime concorrenziale evitando di applicare ingiustificatamente alle società pubbliche un diverso regime giuridico. La complessità del dibattito discende direttamente dall’art. 1 della Legge Fallimentare, ai sensi del quale “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”. In maniera analoga disponeva l’art. 2221 c.c., prima della sua abrogazione ad opera del d.lgs. 14/2019 (c.d. Codice della crisi di impresa), secondo il quale “gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono soggetti, in caso d’insolvenza, alle procedure del fallimento e del concordato preventivo, salve le disposizioni delle leggi speciali”. Analizzando queste previsioni appare evidente come le stesse si riferiscano esclusivamente agli enti pubblici economici, i quali, svolgendo una attività commerciale, potrebbero essere astrattamente ricompresi nella disciplina in esame e per i quali si è quindi resa necessaria una esplicita esclusione, diversamente da quanto accaduto invece per gli altri enti pubblici territoriali i quali risultato non assoggettabili al fallimento per loro stessa natura. Il modello dell’ente pubblico economico è stato decisamente superato dalle società pubbliche, in quanto si è preferito optare, verso la fine del ventesimo secolo, per un modello di gestione di tipo privatistico. Ed è proprio per questo motivo che si è sollevato un ampio dibattito circa la possibilità di assoggettare anche quest’ultime alla legge fallimentare, in quanto, pur essendo sostanzialmente destinate alla cura di interessi pubblici, le società pubbliche sono pur sempre soggetti giuridici aventi una forma iuris di stampo privatistico. Fu così che, a partire dalla sentenza Cass., 10 gennaio 1979 n.58, si è iniziata ad affermare la c.d. tesi privatistica, basata sulla concezione secondo cui le anche le società a partecipazione pubblica dovevano essere assoggettate alle stesse regole previste per le società a totale partecipazione privata e di conseguenza anche alle procedure concorsuali per quest’ultime previste. In particolare, secondo i giudici della Suprema Corte “una società per azioni, concessionaria dello Stato per la costruzione e l’esercizio di un’autostrada, non perde la propria qualità di soggetto privato (…) per il fatto che ad essa partecipino enti pubblici come soci azionisti, che il rapporto giuridico instaurato con gli utenti dell’autostrada sia configurato, dal legislatore, in termini pubblicistici (…) e che lo Stato garantisca i creditori dei mutui contratti dalla società concessionaria per la realizzazione del servizio”. Per contro, vi era chi invece propendeva per la c.d. tesi pubblicistica la quale, facendo leva sui diversi modelli di società pubbliche esistenti, che si differenziavano tra loro in maniera radicale, riteneva opportuno seguire un approccio “on a case by case basis”, distinguendo a seconda delle diverse caratteristiche di ogni società, in quanto solo in presenza di determinati indici sintomatici quest’ultime avrebbero potuto essere escluse dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali. Il testo unico, nel risolvere la vexata quaestio, prevede oggi in modo esplicito all’art. 14, primo comma, che le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. In realtà, a ben vedere, si tratta di una soluzione che si poteva agevolmente ricavare dalla lettura del terzo comma dell’art. 1, ai sensi del quale, “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”.
Attraverso questa esplicitazione a livello normativo il legislatore ha quindi voluto eliminare ogni dubbio circa la possibilità di assoggettare le società pubbliche alle procedure concorsuali. L’intento chiarificatore del legislatore delegato non si è però fermato qui, ma anzi si è spinto sino ad intervenire in materia di azioni di responsabilità promosse contro gli amministratori delle società partecipate, cercando in particolare di risolvere l’annosa questione relativa al riparto di giurisdizione. Da una prima lettura della norma la scelta operata dal legislatore sembrerebbe essere stata quella di prevedere, come “regola generale”, l’assoggettamento degli amministratori e dei dipendenti delle società pubbliche al regime previsto dal diritto societario in materia di responsabilità per le società a totale partecipazione privata. Se da un lato tale assunto può ormai considerarsi acclarato per le società a partecipazione pubblica, stante l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, lo stesso non si può dire con riferimento alle società in house. L’art. 12 del d.lgs. 175/2016 fa infatti salva, in materia di responsabilità, “la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house”. Questa clausola di salvezza, nonostante la sua sinteticità, apre le porte ad interrogativi non molto agevoli da sciogliere. In particolare, ci si chiede se per “danno erariale” si debba intendere solo quello di cui al secondo comma del medesimo articolo, definito come “il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti (…)” o se invece si debba fare riferimento ad una diversa definizione. Il problema non è di poco conto, soprattutto ai fini del radicamento della giurisdizione, posto che, qualora si decidesse di accogliere la prima tesi ne conseguirebbe che non competono alla giurisdizione contabile le azioni volte a risarcire il danno subìto direttamente dal patrimonio dalla società in house, trattandosi di danno non erariale poiché non direttamente arrecato al patrimonio dell’ente pubblico socio. Dovrebbero quindi di conseguenza essere sottoposte alla giurisdizione del giudice ordinario sia l’azione sociale di responsabilità, sia l’azione esperibile dai creditori sociali e di cui all’art. 2394 c.c. Secondo un diverso filone interpretativo invece, la clausola di salvezza appena menzionata dovrebbe essere intesa come avulsa dal restante disposto di cui all’art. 12 del T.U. e di conseguenza si dovrebbe continuare ad intendere il danno erariale in maniera più ampia, così come definito dalla sentenza Cass., Sez. Un, n. 26283/2013: si ricorderà infatti che in tale occasione la Suprema Corte aveva affermato, con riguardo alle società in house, la sostanziale identità tra il patrimonio sociale e il patrimonio dell’ente pubblico, configurando la separazione giuridica derivante dalla veste societaria come una mera formalità e il danno arrecato al patrimonio sociale come “danno erariale” in quanto arrecato al patrimonio dell’ente pubblico. Il tema è stato recentemente affrontato dalla Suprema Corte con due ordinanze, le n. 22406/2018 e n. 10019/2019. La prima pronuncia rappresenta il definitivo superamento del modello di responsabilità delineato con la Sentenza n. 26283/2013, in quanto si ammette espressamente la possibilità del concorso fra la giurisdizione ordinaria e quella contabile. La Corte infatti, richiamando quanto affermato con la decisione n. 26806 del 2009, ritiene che “laddove sia prospettato anche un danno erariale, al di là di una semplice interferenza fra i due giudizi, deve ritenersi ammissibile la proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio”. Secondo i giudici la specifica attribuzione delle azioni relative al danno erariale alla giurisdizione della Corte dei conti lascia chiaramente intendere la configurabilità di un danno non erariale, soprattutto in considerazione del fatto che l’azione contabile sarebbe inidonea a ristorare i creditori sociali e conseguentemente non sarebbe in grado di produrre effetti ostativi nei confronti di una eventuale azione proposta davanti al giudice ordinario. Con la seconda pronuncia, invece, si è ribadito che la responsabilità contabile non può comportare la paralizzazione dell’attuazione della tutela dei creditori sociali, in quanto una siffatta soluzione interpretativa potrebbe determinare seri dubbi di tenuta costituzionale. Il problema nascerebbe quindi, secondo i giudici, da una errata interpretazione della sentenza n. 26283/2013: in tale occasione infatti l’intenzione della Suprema Corte non era assolutamente quella di negare la tutela giurisdizionale dei creditori sociali che erano entrati in relazione con la società facendo affidamento sulla natura privata del soggetto, bensì quella di preservare l’erario dalla mala gestio degli organi sociali delle società “strumento” della P.A.. Di conseguenza, con tale pronuncia, non si era affatto voluto introdurre una “giurisdizione contabile esclusiva” in materia di responsabilità degli organi delle società in house, ma semplicemente rafforzare il relativo regime di responsabilità. Pertanto, sembrerebbe pacifico anche in giurisprudenza la possibilità del concorso tra la giurisdizione ordinaria e quella contabile in materia di azioni di responsabilità contro gli amministratori e gli organi di controllo delle società in house, motivo per cui deve ormai ritenersi ammissibile, anche in presenza di un danno erariale, la proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio.
4. Conclusione
Come preannunciato sopra, l’obiettivo di questa tesi era quello di dimostrare come le società pubbliche, alla luce dei recenti mutamenti legislativi e giurisprudenziali, non siano più dei soggetti giuridici sui generis, ma possano essere ormai considerate a pieno titolo una species del più ampio genus costituito dalle società di diritto privato. Tale assunto sembrerebbe essere confermato innanzitutto dall’art. 1 comma 3 del testo unico, ove si prevede che “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”. Si tratta di una disposizione che, a ben vedere, finisce per costituire una vera e propria norma di chiusura del sistema, attribuendo alle società in mano pubblica un carattere “presuntivamente privatistico”. Coerentemente con queste premesse, l’art. 14 del d.lgs. 175/2016 assoggetta, come si è visto, le società pubbliche alle procedure concorsuali. Del resto, un ostacolo insormontabile all’equiparazione delle società pubbliche agli enti pubblici derivava dall’art. 4 della legge 70/1975, secondo cui “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”. Diversa, e per certi versi ambigua, è invece la soluzione adottata dal legislatore con riferimento al tema della responsabilità degli organi delle società partecipate. Sembrerebbe infatti prima facie che il legislatore delegato abbia operato una diversificazione di regime a seconda che la società in questione sia una società a partecipazione pubblica o una società in house. Proprio a causa di questa perdurante in certezza, la Cassazione è nuovamente intervenuta sul tema giungendo a riconoscere, anche nel caso di società in house, il concorso di giurisdizione e quindi la proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio. La partita, però, non può ancora dirsi conclusa, visti i numerosi oscillamenti giurisprudenziali registratisi in materia nel corso degli anni, motivo per cui sarebbe forse auspicabile un nuovo intervento del legislatore.
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Redattore: Federica LORENZETTI