LIBERALISMO (ENCICLOPEDIA)
1. Origini e presupposti filosofici del liberalismo
Il liberalismo è la filosofia e la teoria politica a difesa della liberà individuale di scelta conseguita tramite la limitazione e il controllo del potere politico. Le sue radici possono essere rintracciate già nell’antichità classica1, ma la sua forma moderna risale alla seconda metà del Seicento e si accompagna all’affermazione dei principi politici dei whigs inglesi. I quali rappresentano la razionalizzazione postuma di una situazione a cui aveva condotto in Inghilterra la lunga lotta tra la Corona e il Parlamento, conclusasi con il riconoscimento di sfere individuali di azione e di possesso di beni protette nei riguardi del potere coattivo del re.
Tali principi trovano la loro classica formulazione nel Secondo trattato sul governo civile (1690) di John Locke, il primo grande pensatore liberale. Muovendo da premesse giusnaturalistiche, egli descrive lo stato di natura originario dell’uomo come uno stato di perfetta libertà e uguaglianza, governato da una legge di natura la quale "insegna agli uomini (…) che, essendo tutti eguali e indipendenti, nessuno può nuocere ad un altro nella vita, nella salute, nella libertà e nei beni" (Locke, 1960, p.242). Pertanto, il "contratto sociale", cui gli individui ricorrono per scongiurare il pericolo di una minaccia alle loro libertà, pone le condizioni per l’edificazione di uno Stato in grado di assicurare la pacifica convivenza fra gli uomini2. L'unico motivo per cui gli individui si vincolano col contratto sociale è infatti quello di ricevere maggiori garanzie circa la tutela della propria persona e il possesso dei beni di proprietà. Contrariamente ad Hobbes, che usò la metafora del contratto sociale per teorizzare uno Stato autoritario, Locke difende infatti l’idea secondo cui diritti soggettivi inalienabili ed imprescrittibili esistono fin da prima della nascita della società, e quindi anche dello Stato, il quale, di conseguenza, sorge per volontà degli stessi individui e non può violarne i diritti fondamentali. Egli pone così le basi per la prima teorizzazione dello Stato di diritto, quello in cui cioè i diritti dei cittadini non possono mai essere violati dal potere politico, che viene limitato dalla legge. I governanti, infatti, non sono i beneficiari del contratto, ma dei semplici contraenti dello stesso e come tali vi sono anche loro vincolati. Essi non possono andare contro i loro sudditi, tant'è che i cittadini hanno pieno diritto di opporsi al potere legislativo o esecutivo, anche con la forza (diritto di resistenza), quando questo diventa illegittimo.
È tuttavia col contributo dei filosofi morali scozzesi del XVIII secolo (soprattutto Adam Smith e David Hume) che il mito di un legislatore onnisciente finisce per essere messo definitivamente in discussione. Il loro liberalismo, infatti, muove dalla premessa gnoseologica dell’ignoranza e della fallibilità dell’essere umano e perciò combatte la presunzione che ci possa essere una fonte privilegiata della conoscenza e la conseguente assunzione che tale fonte possa legittimare un potere politico illimitato, repressore dell’autonomia individuale.
In tal senso, la legge di Hume, stando alla quale è logicamente impossibile derivare proposizioni prescrittive (dunque, valori) da proposizioni descrittive (cioè, fatti), rappresenta un’invalicabile barriera difensiva per la libertà di coscienza ed è assolutamente in contrapposizione con la possibilità, per esempio, di edificare uno Stato confessionale. E l’idea di Smith secondo cui la conoscenza umana non può che essere parziale, fallibile e dispersa tra milioni di individui, tant’è che è impossibile per chiunque centralizzarla e divenire così portatore esclusivo di un sapere superiore, costituisce una critica convincente ed efficace contro ogni forma di protezionismo o interventismo dello Stato amministrativo-assistenziale, il quale non può presumere di sapere quello che "ognuno, nella sua posizione locale, può giudicare meglio di qualsiasi uomo di Stato o legislatore" (Smith, 1975, p.584)3.
Su quali dovessero essere in particolare i compiti dello Stato, sia sul piano più strettamente normativo, sia su quello economico, sono gli stessi Hume e Smith a fornirci delle indicazioni precise. Hume, ha affermato che le "tre leggi fondamentali" (Hume, 1982, p.557) della convivenza, e cioè la stabilità del possesso, la trasferibilità per consenso e il mantenimento delle promesse, non sono la statuizione deliberata di un Legislatore, bensì sono state inintenzionalmente create dagli uomini. Anche il diritto e la morale, infatti, così come tante altre istituzioni (il linguaggio, la moneta, il mercato, ecc.), si sono formati senza una previa programmazione dall’interazione tra soggetti4.
Anche per Smith l'intervento delle pubbliche autorità è semplicemente di carattere residuale. Allo Stato, dunque, spettano solamente tre doveri: quello di difendere la società dai nemici esterni, di proteggere ogni individuo dalle offese che gli possano derivare dagli altri individui e di provvedere a quelle opere pubbliche che non potrebbero essere eseguite se affidate al profitto privato. Coerentemente con i presupposti del liberismo o liberalismo economico, lo Stato deve perciò limitarsi a garantire con norme giuridiche la libertà e a provvedere ai bisogni della collettività soltanto quando non possono essere soddisfatti privatamente.
2. Poteri e funzioni dello stato liberale
Per liberalismo si intende dunque quella concezione per cui lo stato ha poteri e funzioni limitate e come tale si contrappone sia allo stato assoluto sia allo stato sociale5.
Quanto alla limitazione dei poteri, lo stato liberale si configura come "stato di diritto", con cui si intende generalmente uno stato in cui i poteri pubblici vengono regolati da norme generali e astratte (le leggi fondamentali o costituzionali) e debbono essere esercitati nell’ambito delle leggi che li regolano, salvo il diritto del cittadino di ricorrere a un giudice indipendente per far conoscere e respingere l’abuso o l’eccesso di potere.
Principio cardine della dottrina liberale è tuttavia che i poteri, oltre che essere limitati, siano separati. Si deve a Charles-Louis de Montesquieu il merito di aver arricchito di nuovi e importanti contenuti il principio della limitazione dei poteri. Ne Lo spirito delle leggi del 1748, egli afferma che, al fine di impedire la prevaricazione e la concentrazione del potere e quindi la sua trasformazione in potere dispotico, occorre che i poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) siano separati anche se interagenti. In tal senso, i meccanismi costituzionali che precludono o ostacolano l’esercizio arbitrario e illegittimo del potere e ne impediscono o scoraggiano l’abuso devono consistere nel controllo del potere esecutivo da parte del legislativo, o più esattamente del governo cui spetta il potere esecutivo da parte del parlamento cui spetta in ultima istanza il potere legislativo e d’indirizzo politico; nell’eventuale controllo del parlamento da parte di una corte giurisdizionale cui è demandato il sindacato di costituzionalità delle leggi; in una relativa autonomia del governo locale in tutte le sue forme e gradi rispetto al governo centrale; e in una magistratura indipendente dal potere politico.
La separazione dei poteri è un’applicazione della concezione del diritto come insieme di norme generali e astratte, perché solo norme di questo tipo, imponendo non un contenuto specifico bensì esclusivamente procedurale, fanno salva l’autonomia individuale. Se viene meno, per esempio, l’idea che il Legislativo debba produrre o riconoscere solo norme generali e astratte, qualunque provvedimento voluto dalla sovranità popolare può vedere la luce. E per quanto i poteri possano essere formalmente separati, nulla garantirebbe la libertà individuale. Pertanto non è semplicemente la separazione dei poteri a tutelare l’autonomia dei soggetti, ma è la sovranità della legge a consentire la separazione dei poteri e la libertà individuale6.
Nella dottrina liberale tuttavia stato di diritto significa non solo subordinazione dei poteri pubblici di ogni grado alle leggi generali del paese - che è un limite puramente formale - ma anche subordinazione delle leggi al limite materiale del riconoscimento di alcuni diritti fondamentali considerati costituzionalmente, e quindi in linea di principio, inviolabili. Stando alla formula della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (che all’articolo 2 recita che "lo scopo politico di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo"), ogni società nella quale non sia assicurata la garanzia dei diritti "non ha Costituzione". Anche in questo caso, però, conferire una speciale rilevanza o garanzia a certi diritti è solo un’applicazione particolare del principio generale secondo cui la coercizione deve essere limitata all’imposizione di norme generali e astratte, di norme cioè che, definendo solo i confini fra le azioni, lasciano uno sconfinato campo ai diritti individuali. Ciò significa che qualunque statuizione relativa a un particolare diritto non è fondativa di quel diritto, ma è solamente un posterius rispetto a una situazione di "sovranità della legge".
Per il pensiero liberale la libertà individuale è altresì garantita, oltre che dai meccanismi costituzionali dello Stato di diritto, anche dal fatto che allo stato si riconoscono funzioni limitate. Lo Stato, sia pur necessario, non può che essere concepito perciò come "stato minimo", il quale deve interferire il meno possibile nella sfera d’azione dell'uomo.
Nato per garantire la libertà e la proprietà degli individui che si associano per autogovernarsi, il potere civile non può assumere la forma e la dimensione di un governo paternalistico. Infatti, come affermava Immanuel Kant nel 1793, "un governo fondato sul principio di benevolenza verso il popolo, come il governo di un padre verso i figli, cioè un governo paternalistico (imperium paternale), in cui i sudditi, come figli minorenni che non possono distinguere ciò che è loro utile o dannoso, sono costretti a comportarsi solo passivamente, (...) è il peggior dispotismo che si possa immaginare" (Kant, 1956, p.255). Al contrario, il compito specifico dello Stato … scriveva nel 1792 Wilhelm von Humboldt, teorico dello "stato minimo" - è quello di promuovere esclusivamente la "certezza della libertà nell’ambito della legge" (Humboldt, 1961, p.113). Quella libertà "negativa", intesa come sfera di azione in cui l’individuo non è costretto da chi detiene il potere coattivo a fare quello che non vuole o non è impedito a fare quello che vuole, e in ogni caso accompagnata dalla garanzia che "gli affari privati non si traducano immediatamente in un’offesa al diritto degli uni da parte degli altri" (Ivi, p.63)7. Lo Stato liberale è cioè quello le cui leggi hanno per fine la garanzia dell’azione dei singoli consociati alla sola condizione che tale azione non violi i diritti fondamentali degli altri consociati. La condizione della cittadinanza liberale è dunque costitutivamente una condizione di eguaglianza delle chances di partenza di ciascuno. L’unico limite che le leggi liberali devono prevedere è quello che deriva dalla tutela di questa condizione egualitaria originaria di ciascuno8.
La critica del paternalismo ha dunque la sua principale ragione d’essere nella difesa dell’autonomia dell’individuo e nel rifiuto di ogni forma di omologazione della società. L’ingerenza dello Stato nella vita spirituale, civile ed economica degli individui li rende infatti passivi e sostituisce l’iniziativa e la conquista autonoma con l’attesa di provvedimenti di assistenza, sviluppando una cultura dei "diritti" che non sono tali, trattandosi di forme di protezione e di assistenza che distorcono i meccanismi della concorrenza e limitano la libertà e l’autonomia degli individui. I quali, sempre più, si deresponsabilizzano e affidano la propria vita allo Stato anziché alle proprie energie e alla propria attività9.
Ciò nondimeno, già alla fine del Settecento Honoré Gabriel de Mirabeau ammoniva che "il difficile è promulgare soltanto leggi necessarie e restare sempre fedeli a questo principio veramente costituzionale della società, di stare in guardia contro il furore di governare, la più funesta malattia dei governi moderni"10. Nei decenni successivi, infatti, l’ingerenza dello Stato è andata progressivamente aumentando.
In particolare, l'allargamento della sfera dell’intervento pubblico si è realizzato nel momento in cui, parafrasando Friedrich A. von Hayek, il maggiore pensatore liberale del Novecento, alla "legge" si è sostituita la "legislazione", e cioè si affermata una nuova concezione del diritto, che non è più quello delle norme generali e astratte, ma è quello delle prescrizioni e norme statuite, progettate per raggiungere fini particolari e implementare ordini concreti11. Norme che, laddove violano il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge, hanno finito per privilegiare gruppi particolari di interesse. E che hanno creato "le condizioni perché la classe politica potesse 'pagare' il consenso mediante la continua dilatazione del territorio dei beni pubblici, di finalità cioè perseguibili attraverso la 'mano invisibile' dello Stato" (Infantino, 2008, p.315).
Questa tendenza è stata favorita peraltro dall'applicazione in campo economico di teorie (soprattutto quelle di ispirazione keynesiana) che hanno posto in discussione il principio del pareggio del bilancio pubblico, fino ad allora l'unico compatibile con una gestione responsabile e trasparente della cosa pubblica. Il saldo del bilancio è così diventato uno strumento di politica economica affidato alla discrezionalità (se non all'arbitrio) dei governanti. I quali, non essendo più vincolati dalla necessità di rispettare la regola del pareggio, hanno potuto deliberare nuovi e maggiori spese senza preoccuparsi eccessivamente del loro finanziamento12. Pertanto, l'esigenza economica di stabilità ha finito per tradursi "nel passaggio dalla prospettiva costituzionale, basata sull'imparzialità di regole volte a garantire responsabilità e trasparenza nelle decisioni di spesa, alla prospettiva discrezionale, in cui il saldo del bilancio e il finanziamento delle spese vengono affidati all'arbitrio delle autorità" (Martino, 1993, p.90).
Il liberalismo è perciò contro l'interventismo dello Stato in campo economico e legislativo innanzitutto perché questo attenta al principio della sovranità del diritto e, con esso, all’intera concezione liberale della società.
3. Liberalismo e approccio utilitarista
La tendenza ad allargare la sfera dell’intervento pubblico è piuttosto in relazione con una diversa tradizione liberale, che è stata di gran lunga prevalente. Quella che trova espressione nella dottrina utilitaristica iniziata da Jeremy Bentham in Inghilterra nella seconda metà del XVIII secolo e giunta al suo massimo sviluppo con John Stuart Mill nel secolo successivo.
L'utilitarismo è "la dottrina che ammette come fondamento della morale l'utilità o il principio della massima felicità" (Mill, 1981, p.58). Esistendo una propensione antropologica dell'uomo a massimizzare il piacere e a minimizzare le pene, le azioni umane devono essere considerate perciò necessariamente giuste o sbagliate nella misura in cui producono un saldo netto del piacere sul dolore, che viene addirittura misurato attraverso un "calcolo felicifico"13. Ne consegue che la stessa azione politica debba avere come primo obiettivo quello di promuovere la massima felicità e il massimo piacere per il maggior numero possibile di individui.
Nell'ottica del rigido determinismo utilitaristico di Bentham questa posizione approda ad un costruttivismo sociale razionalistico. Il quale è riassunto da Hayek con queste parole: "L'uomo, dato che ha creato egli stesso le istituzioni della società e della civiltà, deve anche poterle alterare a suo piacimento in modo che soddisfino i suoi desideri e le sue aspirazioni" (Hayek, 1988, p.11). Esso, infatti, lungi dal concepire l’idea dei limiti e della dispersione della conoscenza, esalta la ragione, in quanto capace di intendere e di dominare tutto ciò che è nell’esperienza dell’uomo, e dunque vede nell’individuo un essere altamente razionale e intelligente e in tutto ciò che egli consegue il risultato di un piano deliberato della ragione stessa.
Il razionalismo costruttivista postula, "dal punto di vista economico, la necessità della pianificazione o perlomeno, come nel caso della welfare economics, il proposito di costruire (e massimizzare) una funzione del benessere sociale" (Infantino, 2008, p.219n), destinata ad essere utile, quale guida per l’autorità preposta alla pianificazione di una società per raggiungere un massimo di benessere sociale nella gestione statale. Tale funzione deve, infatti, esprimere, sotto forma di rappresentazione numerica, e soddisfatte alcune condizioni di carattere tecnico, il giudizio di un "decisore sociale", vale a dire di un soggetto che abbia la piena responsabilità di compiere scelte in nome della società14. Dal punto di vista giuridico, invece, il razionalismo costruttivista approda al positivismo giuridico (che ha avuto prima in John Austin poi in Hans Kelsen due autorevoli esponenti) secondo cui la legge e il diritto derivano dalla volontà creatrice di un legislatore onnisciente alla cui volontà non si devono porre limiti perché ciò sarebbe in contraddizione con il principio generale di felicità15. Si tratta perciò di un’ideologia sorta dal desiderio di ottenere il controllo completo dell’ordine sociale e dalla fiducia nel nostro potere di poter determinare consapevolmente e nel modo voluto ogni aspetto di questo ordine sociale" [Hayek, 1986, p.250]. In tal senso, si spiega come dal "radicalismo filosofico" di Bentham e dei suoi seguaci siano nate varie correnti politiche di ispirazione socialista e anche l’idea della possibile coniugabilità fra liberalismo e socialismo16.
Storicamente tuttavia questa tradizione "radical" del liberalismo, con particolare riferimento all'opera di John Stuart Mill, ha sostenuto le ragioni della democrazia quale organizzazione politica che garantisce a ognuno un margine di libertà ma soprattutto il più alto benessere individuale perché lascia gli individui liberi di competere e cooperare per rimuovere le loro insoddisfazioni. Una democrazia da intendere tuttavia, come ha insegnato anni dopo Karl Popper (1996, pp.160 e ss), non come "governo del popolo" bensì come "controllo del popolo sui governanti", per evitare quella tirannia della maggioranza contro quale già Tocqueville aveva messo in guardia e che Mill considerava la più grave minaccia della forma di governo democratica.
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1 Molti autorevoli studiosi ed esponenti del pensiero liberale sono concordi nell’affermare che già Atene e Roma antiche conoscevano questo tipo di libertà. Cfr, per esempio, Benjamin Constant (1966) e, in tempi più recenti, Bruno Leoni (1994).
2 Locke è, infatti, un esponente della corrente di pensiero nota come "contrattualismo". Fiorita in Europa tra l’inizio del Seicento e la fine del Settecento, essa riconduce l’origine della società e il fondamento del potere politico in un contratto, e cioè in un accordo tacito o espresso fra gli individui, il quale segnerebbe la fine di uno stato di natura e l’inizio dello stato sociale e politico. Tra i suoi massimi rappresentanti, oltre a Locke, annovera Thomas Hobbes, Baruch Spinoza, Samuel von Pufendorf e Jean-Jacques Rousseau. Sul contrattualismo esiste un’ampia letteratura. Cfr. la voce "contrattualismo" in Bobbio et al. (1990, pp.220-231).
3 L’obiezione gnoseologica che Smith muove all’interventismo economico del Legislatore, e della politica in genere, vale peraltro anche nei confronti dell’interventismo legislativo. Tema caro, questo, successivamente anche a altri autorevoli rappresentanti del pensiero liberale come Benjamin Constant, François Guizot, Alexis de Tocqueville che nel XIX secolo si sono spesi per affermare l'idea che la libertà nasce dalla limitazione del potere politico. Sul contributo di tutti questi autori alla demolizione del "mito del Grande Legislatore", cfr. Infantino (2008a, pp.113-160).
4 Questo approccio di tipo evoluzionistico è quello che, dalle riflessioni di Hume, Smith, e prima ancora di Bernard de Mandeville, giunge a Carl Menger e alla Scuola Austriaca di Economia. Ad essa si deve la formulazione di una teoria sociale che ha fatto dei risultati inintenzionali delle azioni individuali il proprio tema centrale, dimostrando per esempio che la maggior parte delle norme e delle istituzioni sono nate senza essere state progettate deliberatamente da qualcuno, cioè spontaneamente, quale risultato della composizione di azioni individuali dirette a scopi diversi rispetto a quelli effettivamente perseguiti. Per una breve sintesi, cfr. Fallocco (2002).
5 Cfr. Bobbio (1986, pp.13 e ss.)
6 In tal senso, Hayek (1986, p.110) si è spinto a scrivere che la "libertà degli inglesi", diversamente da quel che gli inglesi pensavano e da quanto Montesquieu insegnò al mondo, non è stato un prodotto della separazione dei poteri tra il legislativo e l’esecutivo, bensì il risultato del fatto che il diritto che governava le decisioni dei tribunali fosse la common law, un diritto cioè la cui esistenza era indipendente dalla volontà di chiunque.
7 La distinzione tra libertà "negativa", quella difesa dalla dottrina liberale, e libertà positiva - deve la sua notorietà al discorso Sui due concetti li libertà pronunciato da Isaiah Berlin alla Conferenza di Oxford del 1958. Cfr. Berlin (1989).
8 L’uguaglianza sostenuta e difesa dalla dottrina liberale è quella "formale" per cui tutti i cittadini si equivalgono davanti alla legge. Essa, tuttavia, dal punto di vista giuridico, rappresenta una fictio iuris, perché non presuppone una reale e sostanziale uguaglianza fra le persone, ma si riferisce all’atteggiamento di imparzialità che lo Stato deve tenere di fronte ai suoi cittadini. L’uguaglianza sostanziale, che non è al contrario uguaglianza di opportunità quanto di punti di arrivo, è infatti assolutamente inaccettabile per un liberale perché non tiene conto delle diverse aspirazioni e delle peculiari attitudini delle persone e deresponsabilizza l’individuo nei confronti del suo operato. Cfr. (Antiseri, 2003, pp.67-72).
9 All’elogio della "varietà" su cui tanto aveva insistito per esempio Humboldt (1961, pp.65 e ss.) è riconducibile uno dei principi cardine del pensiero liberale, quello della competizione. Il liberale infatti crede fermamente nella fecondità dell’antagonismo, inteso come veicolo di innovazione e di crescita in una società dinamica ed aperta, dal momento che l’interesse di ciascun individuo a soddisfare i propri interessi in concorrenza con gli interessi di tutti gli altri è condizione necessaria e benefica del progresso materiale e morale della collettività. Cfr. Antiseri (2003, pp.43-46)
10 Citato come motto al primo capitolo in Humboldt (1961).
11 Cfr. Hayek (1986, pp.48-180).
12 Sugli effetti "perversi" delle teorie di ispirazione keynesiana, cfr. Buchanan e Wagner (1997).
13 Bentham ritiene che "la Natura abbia posto il genere umano sotto la guida di due sovrani assoluti, il piacere il dolore. A loro spetta di indicare cosa dovremmo fare, così come determinare ciò che effettivamente faremo. Sia la distinzione tra giusto e sbagliato da un lato, così come il nesso tra cause e effetti dall’altro, sono subordinati al loro potere. (...) Un uomo può, a parole, pretendere di sfuggire al loro controllo, ma nella realtà egli ne rimarrà soggetto nonostante tutto. Il principio di utilità riconosce questa soggezione e la considera come fondante di quel sistema, il cui oggetto è costruire l’edificio della felicità con i mattoni della ragione e della legge" (Bentham, 1998, p.90).
14 Il problema centrale dell’Economia del benessere è, in particolare, quello della produzione di decisioni pubbliche destinate ad allocare le risorse economiche in modo da ottenere il massimo benessere per i membri di una collettività. Com’è noto, tale problema era stato posto, alla fine dell’Ottocento, da Vilfredo Pareto, per il quale il benessere economico è in condizioni ottimali (da cui il criterio conosciuto come "ottimo paretiano") quando non è possibile aumentare il livello di utilità di uno o più individui senza, d’altro canto, ridurre l’utilità degli altri individui. Quando, durante gli anni ’30, diventarono di moda i modelli di "socialismo di mercato", che descrivevano come i governi potevano soppiantare il sistema dei prezzi allocando i beni in misura altrettanto efficiente di quanto avvenisse sul mercato, alcuni economisti - primi tra tutti, Abram Bergson e Paul Samuelson - cercarono di "costruire" una "funzione del benessere sociale". Per un'analisi critica, cfr. Arrow (1977).
15 Sul positivismo giuridico, cfr. Bobbio (1996).
16 Critico del comunismo, responsabile di distruggere qualsiasi spazio per le libertà individuali con l'assoggettamento del singolo nei confronti del potere, John Stuart Mill guardava, per esempio, con un certo interesse al socialismo cooperativistico di Fourier per la sua compatibilità con il sistema della proprietà privata e la concorrenza. Cfr. Mill (1953, pp.206 e ss).
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